O Dio, fonte della carità,
che in Cristo tuo Figlio ci chiami
a condividere la gioia del regno,
donaci di lavorare con impegno in questo mondo,
affinché, liberi da ogni cupidigia,
ricerchiamo il vero bene della sapienza.
Il Qoèlet apre la liturgia della Parola con un motto divenuto proverbiale: “Vanità delle vanità, tutto è vanità” (Qo 1,2). Si tratta di un realismo disincantato, ma non disperato. Vi è sottaciuta la domanda su ciò che dura, per cui vale la pena vivere. Un interrogativo analogo è proposto nel Vangelo (Lc 12,13-21): un tale chiede al Maestro di dirimergli una questione d’eredità con il fratello, ma Gesù rifiuta di farsi arbitro d’interessi terreni e smaschera la radice del conflitto, la cupidigia. Chi vive nell’affanno di accumulare ricchezze crede che tutto dipenda da lui. Non sa che nessuno è padrone del tempo, che la vita è un dono e non un possesso. Nella parabola offerta dalla pagina evangelica possiamo confrontarci con la stoltezza di un uomo ricco che dimentica l’essenziale, lascia fuori dei suoi calcoli Dio e il prossimo. Se facciamo dipendere la nostra vita da ciò che abbiamo, soffochiamo ciò che siamo. Dovremmo “contare i nostri giorni per giungere al cuore della sapienza” (salmo 89,12).
Siamo esortati da san Paolo a “cercare le cose di lassù” (Col 3,1). Cioè a volgere mente e cuore all’unica realtà che resta, di cui siamo già partecipi per mezzo del Battesimo. È l’invito che ad ogni Eucaristia ci viene rivolto nel dialogo iniziale della preghiera eucaristica: “In alto i cuori”. Immersi nelle faccende di quaggiù lavoriamo con impegno e responsabilità pregustando l’eredità che ci attende: la gioia del regno.
Sr. M. Rosangela Bruzzone
La vera ricchezza
O Dio, fonte della carità,
che in Cristo tuo Figlio ci chiami
a condividere la gioia del regno,
donaci di lavorare con impegno in questo mondo,
affinché, liberi da ogni cupidigia,
ricerchiamo il vero bene della sapienza.
Il Qoèlet apre la liturgia della Parola con un motto divenuto proverbiale: “Vanità delle vanità, tutto è vanità” (Qo 1,2). Si tratta di un realismo disincantato, ma non disperato. Vi è sottaciuta la domanda su ciò che dura, per cui vale la pena vivere. Un interrogativo analogo è proposto nel Vangelo (Lc 12,13-21): un tale chiede al Maestro di dirimergli una questione d’eredità con il fratello, ma Gesù rifiuta di farsi arbitro d’interessi terreni e smaschera la radice del conflitto, la cupidigia. Chi vive nell’affanno di accumulare ricchezze crede che tutto dipenda da lui. Non sa che nessuno è padrone del tempo, che la vita è un dono e non un possesso. Nella parabola offerta dalla pagina evangelica possiamo confrontarci con la stoltezza di un uomo ricco che dimentica l’essenziale, lascia fuori dei suoi calcoli Dio e il prossimo. Se facciamo dipendere la nostra vita da ciò che abbiamo, soffochiamo ciò che siamo. Dovremmo “contare i nostri giorni per giungere al cuore della sapienza” (salmo 89,12).
Siamo esortati da san Paolo a “cercare le cose di lassù” (Col 3,1). Cioè a volgere mente e cuore all’unica realtà che resta, di cui siamo già partecipi per mezzo del Battesimo. È l’invito che ad ogni Eucaristia ci viene rivolto nel dialogo iniziale della preghiera eucaristica: “In alto i cuori”. Immersi nelle faccende di quaggiù lavoriamo con impegno e responsabilità pregustando l’eredità che ci attende: la gioia del regno.
Sr. M. Rosangela Bruzzone